Seamow, you will find all your brothers here
and sense you've met a few already, by chance or mistake.
See them all in your wandering the world, they will tell you of the lands I trod.


20 novembre 2009

Toni di grigio


Di tutta Vancouver mi rimane un piccione che chiudeva gli occhi sotto una pioggia scrosciante e si preparava a morire.

16 ottobre 2009

Stanza d'albergo


Tienimi la fronte
memoria
con la tua mano fredda
ché ho conati di pianto.

Un’aureola compongo stanotte
d’affanni
oltre una trasparenza di me
sulla tua vestaglia a quadri:

l’odore dei tuoi pantaloni
avana
le tue bianche dita coniche
cariche di frutta estiva.

Serena forte solitudine.

Il mondo continua
a complicarsi
dietro ai doppi vetri.
Lascia che accosti le tende.

Nessuno ha mai capito
il nostro chimico protocollo.
Nessuno ha mai scoperto
la nostra muta fonte notturna.

Vedi mio poeta?
È scritto qui,
in questa carta da lettere.
È tutto scritto qui:

il tuo, il mio silenzio,
il nostro patto indiscusso,
tutte le nostre trasformazioni,
epifanie della Nostalgia.

E finalmente,
un po’ di seria,
giusta,
solitudine.

18 agosto 2009

Pianto di Eco


Qui nel suo lago
Non ho che innocue lame
Anelli d'acqua

15 agosto 2009

Un doloroso dono


In un comprensorio di caseggiati bassi che fungono da hotel, una sera uniformemente buia, incontro uno straniero con i baffi castano chiari come i capelli e gli occhi. È un tipo piuttosto anonimo e potrà essere tedesco o polacco. Parliamo un po’ in inglese. Sembra condividiamo analoghe esperienze lavorative. Scopro poi che è il marito di L., che incontro separatamente di lì poco e che mi confida con un sorriso fragile che sì, ha finalmente trovato un secondo marito.
Faccio qualche passo per avviarmi verso non so dove (forse il mio alloggio) e, nel silenzio serale, vedo una coppia che cammina di fretta, provenendo da sinistra. In un certo qual modo andiamo nella stessa direzione, ma procediamo per linee sghembe: i nostri percorsi sono destinati a incrociarsi. Riconosco lei, G., e quindi - era il suo compagno - lui, T., stranamente senza la barba. Il suo volto è come denudato. Quando siamo più vicini, noto che parlano tra loro con complicità ed ho l’impressione che ridano di me. Affrettano il passo e si curano di non guardarmi. E così mi precedono, tagliando verso destra. Cammino ancora per poco finché mi giro e li fermo, all’apice di quella “X” che abbiamo disegnato insieme, chiamando T. ad alta voce; poi li riprendo bonariamente perché volevano eludermi. A quel punto i due mi vengono incontro sorridendo e rispondendo con ironia alle mie battute.
G. è morta qualche anno fa, penso. Di T. non so più nulla da allora. L. è sparita da tempo.
Mi guardo intorno desolato. Adesso questo luogo, dove in solitudine incontro persone passate e tanto tristemente evocativo, mi spaventa.

E così l’aereo del sogno, sbucando da nubi basse, atterra sulla sua pista e si dirige lento verso il terminal della vita vissuta. È in questo breve tragitto di raccordo che tutto, come talvolta accade, si spiega. È qui che io ricordo che l’unione di G. e T. fu per entrambi un sofferto approdo nell’odissea delle disillusioni, iniziata col fallimento del loro primo matrimonio. Proprio come per L. che ha vagato per anni ed oggi sorprendo legata ad un improbabile lido straniero così lontano dai suoi modelli.

Ma c’è molto di più: comprendo che l’angoscia che mi ha suscitato quel teatro immaginario che ho creduto paura di scena, da attore nella sua parte, non è che un panico vero che denuda tutta la mia reale viltà. E per questa rivelazione, regalo inopinato del mio inconscio, subentra ora una sofferenza concreta e critica, ben più dura da sostenere. Entro nel “finger” un poco più consapevole della mia mediocrità.

8 luglio 2009

Un lontano foulard leggero


M’ascolti? Era di luglio, ricordi? Cenammo al Gamle Port, nel dehors. Due ore sotto il sole alto della sera. Dicemmo: il sole qui fa brevi immersioni, come i delfini. Corre per poco subito sotto il pelo dell’acqua e poi su, per lunghi tuffi, sopra la superficie, con l’occhio ammiccante e il sorriso contagioso. E tutti, lì fuori, contagiati e sorridenti, sciamanti nella ricarica estiva.

E c’era anche quel gabbiano, grosso come un cane, padrone di quel minuscolo spazio aereo triangolare, che sfiorava il nostro tavolo e risaliva, senza muovere un’ala, passando di qua e di là su invisibili ascensori d’aria. S’appollaiò su un ombrellone finalmente, e si mise di profilo, fermo come un sasso di gesso, qualche piumetta si alzava per quel vento di coda che aveva appena estinto le sue urla strazianti.

Ci conoscevamo da poco, e tu eri ancora come un foulard leggero, confortevole ed elegante, abbandonato intorno al mio collo. Non ti parlavo ancora molto, non volevi che io lo facessi dopo tutto. E del resto potevi sparire, evaporare a quel sole: nemmeno tu sapevi cosa avresti fatto, aspettavi solo la mia decisione.

Tu eri un ermisino amaranto sul mio dorso forte di viandante e giravi la testa a destra e sinistra. E ogni tanto un lembo sfiorava le mie orecchie, suggeriva nuovi pensieri, mentre l’altro mi cingeva dolcemente il collo. Come di fronte al monumento grigio a Karin, davanti alla biblioteca, qualche mese dopo. Era già dicembre, quando, abbracciandomi come un manto caldo di lana, mi dicesti: lei fu solo per pochi ed ora è pietra, ma ancora nessuno la vede, nessuno la nota, perché è come una matassa dipanata. Lei è oggi come fu in vita: densa e trasparente. E così sono io per te, e solo per te: una pesante trasparenza.

É strano, io non potevo decidere e tu non volevi che io lo facessi. Eppure è successo. Lì capii, lì avevo mio malgrado deciso. E lì ti riconobbi.

M’ascolti? Ora tu sei un enorme e goffo orango a cavalcioni sulle mie spalle. Sempre io giro e sempre ti porto con me, ovunque vada. Hai un’aria ingenua, soddisfatta e assente, persa nei suoi percorsi impenetrabili. Tutti ti notano, ma nessuno ti considera, nessuno s’incarica di liberarmi di te.

Solo oggi riesco a dire finalmente chi sei. Sei la mia mostruosa paura, la mia assoluta e insopprimibile incapacità di amare. E per ora questo basta.

2 luglio 2009

Arte



[...] L’unico modo per incontrare l’arte assoluta, posto che essa esista, è quello di non tentarla affatto.
Se per caso infatti riuscissimo di avvicinarci ad essa con un opera di unanime valore, che sia pittorica, musicale, letteraria o di altro genere, avremmo solo definito un nuovo punto di riferimento in una certa direzione, un nuovo canone, di per sè comunque fuorviante, per non dire contrario, rispetto al concetto di assoluto. Il nostro fine si rivelerà fallito così come già ci appariva inadeguato il punto di partenza. [...]
Ogni successo artistico è tristemente - non puo’ che essere - un compromesso “verso il basso” rispetto al traguardo d’assoluto che si pone, sebbene per suo tramite tutti coloro che ne godono possano sentirsi, seppur di poco, elevati verso la mèta suprema. Appare così in tutta la sua evidenza la natura asintotica del percorso artistico in luogo del suo atteso carattere intercettivo.
Non tentando nulla, invece, da una parte non si rischierebbero direzioni improprie, dall’altra ogni angolo di mondo ci parrebbe un capolavoro, inimitabile, e così com’è, senza mediazione e senza remora, fruibile e inevitabilmente goduto nella sua assoluta unicità. [...]

Questo è uno stralcio dell’ultima pagina del diario di E29FC8 (al secolo Jack ‘o Rubens) figlio di 622152 (Jack ‘o Soberwas), della XII generazione dei Jackonedee. Sacrificando un intero letargo, tentò invano di replicare con le sue scaglie le variegate sfumature di un bicchiere di Syrah al chiaro di luna nel quale il padre era caduto accidentalmente una sera mite, quanto a me propizia, di fine autunno. Il diario si apre con un trattato filosofico estremamente profondo, ma assai ostico nella sua decifrazione, che il nostro rivela in una nota essere elaborato direttamente da un dialogo col padre avuto immediatamente dopo la di lui inattesa e coinvolgente avventura nel calice di vino.

30 giugno 2009

Qui, dove inutilmente torno

.

Torno
in questo luogo incontemplato,
che pur esiste, perché è qui
a me intorno.
E qui ombrilungo m’aggiro.

Silenzioso estraneo e solo,
oltre le squadrate forme,
tento di capirne
come il gatto
che visitava
notturno
le stanze di noi pervase.

Ma non v’è contesa di sensi:
sovrasta questo tuo sospeso istante
e i suoi mossi tatuaggi di luce
uno sciame di voci
che dissi a tutti nostre,
ma che qui
si fanno mie soltanto.

Qui, dove inutilmente torno,
muscoli e levigate cosce,
pietra che ferma la carne:
così il sogno sfonda le quinte
e si mostra in una scena non sua,
attore al pari del vero.
È qui che danno ogni sera
lo stesso destino disfatto.


28 giugno 2009

Arcus vivendi

.
- Sei tornato finalmente!
- Oui, ma folle danseuse. Calmati. Fatti alitare un po’ sul nasone. Già, solito Leberkäse e Paulaner. Non trovo di meglio al rientro. Va meglio ora?
- Si, grazie. Non si fa più vita...
- A chi lo dici...
- Ma insomma, cos’è per te vivere?
- Oddio, così sulla porta... ah, tes baisers doux d’albumen... Parlare.
- Anche con te stesso?
- Sì.
- Allora vivi in questo esatto momento?
- In un certo senso sì, direi meglio che sopravvivo.
- Parlare ... pensare no?
- Per l’appunto, anche pensare. Fai la furba eh? e io ti strizzo il muso proprio tra il tartufo e i bulbi straniti, inutile che li sgrani, non capirai mai questi giochi così materiali. (Non si capiscono, non si possono capire, i giochi che piacciono)
- Stai pensando ora?
- Beh, ora non più. Rispondo. Anch’io sono bravo a sfuggirti, chasseuse de tourterelles. Fammi posare ‘sto coso.
- E non pensi quando rispondi?
- No. Cerco. Cerco la risposta giusta tra le tante. Ci metto un attimo.
- Strano che tu non pensi quando ti pongono una domanda. Potresti scoprire tante altre cose.
- Non credo, tutt’altro. Non amo mediare quando mi fanno una domanda. Si arriva al nulla di sempre. Meglio cercare la risposta giusta e chiuderla lì.
- E come alimenti la tua scorta di risposte giuste?
- Vivendo.
- Cioè? Rispondendo, parlando o pensando?
- Sperimentando. Agendo.
- Cosa mi hai portato?
- Niente.
- Ma allora parlare cos’è?
- Ascoltare e dire. Cantare.
- Senza connessioni? Senza ragione? Senza dialogo?
- Senza. Quello sarebbe pensare.
- Allora vivere è rispondere, pensare, parlare e agire. Mi sembri confuso. Abbiamo finito?
- Sì. È tutto. C’è una vita ribattuta, una pensata, una cantata ed una sperimentata. Non si conoscono tra di loro anche se seguono una linea di superamento ad arco. La prima è vita inevitata, la seconda è vita sopravvissuta, la terza è vita davvero, la quarta è vita bruciata.
- E dove si trova questa linea ad arco?
- Su una bolla di libertà, che si alza sul lago dell’accaduto. E lì che si tuffa la vita sperimentata, è lì dove si trovano tutte le risposte giuste, è da lì che evapora la vita inevitata. È da quel torbidume insopportabile che si sprigiona la bolla di libertà.
- Ossignore. E come si forma quella bolla?
- Depressione.
- E sì mio caro, lo so. Lo vedono tutti. Da tempo...
- Ma che hai capito? La bolla di libertà si forma per depressione. È il buio sopra il lago che la risucchia su. Talvolta succede.
- Quindi la libertà non è … libertà?
- Macché… è un fenomeno fisico. Ci sono momenti in cui il buio sovrastante opprime di meno e il lago è così limaccioso che ci potresti camminare su con tutte le scarpe. È allora che si alza la bolla.
- Senti, ho altre priorità adesso, mi aspetta un po’ di vita ribattuta. Dimmi solo perché la vita davvero – come la chiami tu - è quella cantata.
- Perché è il punto di spinta massima della libertà. È dove il buio si rarefà: è quando, è dove si spacca la superficie del conosciuto: non rispondi più, non pensi più, non agisci più. Ascolti il buio e vibri nel buio. Dura un attimo. Parti in sintonia prima, sulla spinta, e poi prendi una tua strada imponderata e inistintiva. Crei. Non potrai mai immaginare il percorso di quella piccola esplosione. Tutti ne vedranno i frantumi ricaduti sul lago - il frutto conosciuto della tua creazione - e qualcuno di questi resti ne sarà il simulacro. Molti ne godranno a lungo. Ma nessuno, tranne te, avrà vissuto davvero in quell’esplosione. Nessuno, tranne te, l’avrà potuta all’istante dimenticare.
- Non si possono capire i giochi che piacciono.
- Già
- Portami fuori ora.
.

19 giugno 2009

Passate abbandoni

.

Passate abbandoni in voto di speranza.
Passate veloci,
al conforto dei vostri falò.

Voi che dovete lasciarvi tutto alle spalle
e tutto guardare da su
per capire.

Passate, messi d’inquietudine.
Nulla vi dirà del mondo
più delle vacillanti cose

che pure stanno.
Amano la loro condanna
i riverberi di luce sull’acqua.

14 giugno 2009

The clouds run ashore

.

The clouds run ashore at the harbour cranes.
They sow notes of polish
beneath a sun-swollen moon
who wears their plots down
to a cinder shawl.

In the terrace of my beloved
a wisteriafall sprinkles
her still glass-dome
with memories.

She stems
a sister violet sap
in her eyes.

I only breathe
and scent

a pollen of end.

10 giugno 2009

Dove inciampa la tua arte

.

Come il nostro merlo
serotino appare
in un lampo d’ossidiana
sul debole pruno,
la gialla sgorbia che intaglia
trilli rampicanti sulla volta
di un linoleum tumefatto,

così ritorni tu quando imbuia
a rinverdirmi e scruti
corridoi celesti che io non vedo
e poi sparisci
appena senti il mio pensiero.
Così io resto
dove inciampa la tua arte.


6 giugno 2009

Dormo quell'orizzonte

.

Poche case quadrate.
Quattro granelli di sabbia
perduti dallo scirocco

nelle sue transumanze.


Brilla una faccia di quarzo

nel tempo che concede al sole

la sua mola convulsa

il pianeta.


Sono nato da una

di quelle scintille

ma vorrei rivederlo.

Dormo quell’orizzonte.


L’abbraccio infinito dell’occhio

non misura la miseria

delle nostre bisacce

di ruminanti.


Spogli sigilli d’argilla

grammi della materia dell’uomo -

l’alito vivificante
evapora
nel sonno dei vivi.


4 giugno 2009

Prologo

.

Tra queste quattro mura di betulla,
segni sudando e voci d’intelletto,
i’ vo’ morendo. E luna ora mi culla,

materna invela erboso il dolce tetto
quel mesto pondo ch’imbasculla il mondo,
e i’ m’abbandono a dir, a tal cospetto.

Nulla v’è qui ch’in altro girotondo
d’umane sorti e intrichi non s’arroti,
ma sol si è se ci si svela a fondo:

così cantando assorto, i miei remoti
sogni e gesta e passïoni e morti
e le risurrezioni vo’ far noti.

Ed io sarò. Per te, che da contorti
orditi d’onde radio m’hai trasdotto
nel tuo piccì o nel palmar che porti

teco dovunque. Per te, che di sotto
il banco follemente digitando
i tasti numerati per far motto

un nuovo post sorprenderà sonando.
Così sarò. E non di carne fatto
ma di pensier etterno mi tramando.

Ordunque è ben ch’i’ inizi con il tratto,
ché disfocando l’occhio sulla fronda
del pria lo stereogramma mostra esatto.


1 giugno 2009

Porte convesse

.

In una parentesi della mia vita ho incontrato termini sconosciuti.

Nelle parentesi si entra dall’alto, altrimenti – volendolo - si eviterebbe di accedervi, riconoscendone la porta convessa; o per eccesso di velocità, sfondando quella porta. Per la fretta.
É sempre lo slancio, di un salto provocato o di una corsa istintiva, che condanna al nuovo territorio. E non è affatto detto che entrando in una nuova parentesi si esca dalla precedente. Anzi, il più delle volte l’annidamento è indistricabile e non segue le regole dell’algebra lineare.

Ebbene in quella parentesi, che chiamerei “periodo delle perle”, non riconoscevo più nessuno. A cominciare da me. Tutto era indurito, levigato e impenetrabile. Le cose, le parole, persino i pensieri, cozzavano tra di loro respingendosi, rimbalzando festosamente con un leggerissimo ticchettìo. E per constrasto, un silenzio immenso, altrimenti inavvertito nel suo continuum, mi lasciava in un’apnea che forse avevo provato una volta soltanto, al largo, supino sul materassino, compresso tra mare e cielo e con un gusto di non-senso in bocca.

Ma c’è un altro modo di entrare nelle parentesi: girare la maniglia ed aprirne la porta. Di proposito. Trovare una porta convessa non è mai un problema, sono ovunque. Ci sono quelle con tanto di targa fuori e quelle nascoste, più o meno goffamente: talvolta solo coperte di muschio, talvolta profondamente insabbiate; alcune si nascondono sotto i tappeti ma si rivelano per gli avvallamenti del pavimento, in un gioco un po’ puerile di serendipità.

E così ho fatto questa volta. Ho aperto io quella porta.

E so di essere là, proprio dove, nella mia mano sinistra, la linea della vita, stringendo la curva del Monte di Venere, offre una curiosa biforcazione: un ramo più corto, ma ugualmente marcato, che si allontana, proprio sulla linea di fuga.

Il “periodo delle perle” non è ancora terminato e io ho preso il ramo corto.

Finché potrò, non perderò di vista il percorso primario, ma presto dovrò solo immaginarlo, nel suo letto maestoso inciso da uno scriba ordinatore, perché troppo impervio sarà il territorio per ritrovarlo.